Valerio Volpini

Appunti per Franco Dugo

La bibliografia che riguarda Franco Dugo, anche escludendo i riferimenti di cronaca, e sterminata. Da quando, oltre vent’anni fa, ha cominciato ad incidere subito ha sollecitato un grande interesse fra gli addetti ai lavori. Dedicarsi all’incisione, all’acquaforte (e alle sue varianti) richiede anche una particolare volontà, perche si tratta sempre di una espressione poco amata, per quanto negli ultimi decenni l’atteggiamento sia notevolmente mutato. Faccio questi riferimenti, pleonastici, per sottolineare quello che mi pare un fatto molto importante nell’arte di Dugo, vale a dire la straordinaria capacità del disegnatore che é in lui, quasi una misura istintiva della sua comunicazione. Anche questo é ovvio: l’incisione altro non è che la moltiplicazione del disegno, ma e anche altrettanto vero che lavorare sulla lastra e torchio comporta una capacita inventiva di controllo ed insieme una fantasia che superano la misura del disegno stesso. Ma per accogliere in pieno quello che cerca di dirci occorre andare oltre i termini specifici del linguaggio e della specificità rigorosa sino a indovinare pensieri e simboli dei volti ritratti. Procedere inversamente sarebbe restare all’esteriorità, alla superficie del suo raccontare senza cogliere l’anima e gli emblemi delle sue figure. Mi ha convinto il saggio di Marco Goldin (e mi perdonino quanti altri hanno detto assai bene dell’artista) quando, all’inizio, afferma che: “Dugo ha ogni volta evocato lo spazio privo di parola, solo abituato al silenzio”. Ed e stato lo sviluppo di questa tematica che mi ha indotto a fermare solo alcuni appunti. Dopo quello che ha detto Goldin non si può leggere più in profondo e con tanta cordiale acribia le incisioni di Dugo ma solo seguitare il discorso.
 
De Micheli definisce gli ultimi fogli “rievocazioni familiari” e con una sottile immagine “traslati dell’esistenza”. Siamo già ad una trasposizione della memoria nel racconto: quello “storico” e quello domestico ed affettivo che ha caratterizzato tanta parte della narrativa del nostro tempo compresa quella di “frontiera” che l’artista sicuramente conosce perché nasce, in ultima analisi, dalle stesse pulsioni culturali: da Slataper a Quarantotti Cambini sino a Tomizza e Sgorlon. Non si tratta però di stabilire parentele o di fermarci in dubbiosi paralleli. Basti dire che appartiene alla rigogliosa fioritura dell’incisione che nel Novecento dal mondo slavo arriva a tutta la Mitteleuropa. Il “grande segno” del contributo all’arte del Novecento che ha caratterizzato anche l’impressionismo e l’espressionismo. Dugo, però, non può essere collocato in una linea storica che lo leghi a qualcuno dei movimenti novecenteschi. La sua posizione è tesa verso il “naturalismo” con gli occhi accesi dai dagherrotipi e dalle foto. La secca fenomenologia dell’artista si carica di suggestioni che raccoglie sotto il titolo di “identificazioni” che forse si esaltano con una intenzione vagamente ironica nel ciclo della Gioconda.
 
Dugo è un “ritrattista appassionato”. Nella figura intera dei familiari o dei personaggi della memoria paesana (o della storia che per lui é la pittura). E’ un ritrattista che apparentemente ruba il mestiere all’obbiettivo. Si vedano i ritratti del padre o quelli dei boxeurs o di Rembrandt che appartengono all’ultima tratta del suo lavoro. Qui non c’e più neanche un solo segno del bulino lasciato all’avventura dell’arte. Tutto è così perspicacemente misurato come se non si trattasse altro che di una rilettura delle foto, una ripetizione che concede alla semplicità della foto di una volta una durezza plastica. D’altronde anche nei ritratti dei boxeurs sembra inteso a cogliere l’accento spigoloso dell’esistenza. Persino quando si ritrae non fa a meno di trasformare il bambino sorridente che e stato sul banco di scuola, in un accigliato e ruvido adulto che interroga.
 
L’insistenza di volti, la galleria di ritratti, una costante che tiene il luogo di espansioni emotive e surroga i sentimenti. Dugo si specchia nei volti, siano quelli della memoria o quelli dell’album di famiglia. Occorre ripetere che il raffinato ritrattismo, il perfetto ricorrere al volto non è un accademico esercizio di bravura. Si potrà forse scorgere nelle sue incisioni la tentazione del perfezionismo ma questa è un’osservazione che non tocca la sostanza e la forza della sua creazione. lnfatti i volti non sono soltanto l’anima delle persone che gli stanno davanti, ma anche lo specchio di se stesso e la sostanza della sua muta compassione sgombra di gesti e fredda ma proprio per questo carica di drammaticità. I volti dicono l’interrogativo del loro creatore e raramente - quasi eccezionalmente – socchiudono le labbra in un sorriso. E’ il mistero del prossimo avvertito con celata sofferenza. Viene da chiedersi perché nelle sue lastre manchino pressoché totalmente la natura morta e il paesaggio che sono sempre stati grande stimolo per gli incisori; forse la risposta deve cercarsi nella sensività dell’artista (attenzione non parlo di sensualità) ma di qualcosa di più che potrebbe essere descritto come creaturalità , legame dell’uomo secolarizzato, consapevole dei limiti e delle paure del vivere. A questi stati della coscienza interiore, alle immagini oniriche Dugo ha dato spazio come si può fare per una confessione e quasi vien da pensare al viennese signor Sigmund Freud lettore che ha cercato di scoprire l’uomo oltre il segno dei volti. Forse Dugo lo confessa in alcune incisioni a metà degli anni Settanta che fanno pensare ad una rilettura di Hieronimus Bosch e Pieter Bruegel.
 
Ma quanto ho accennato non avrebbe senso compiuto se non aggiungessi che il calore umano del racconto, lo specchio dei volti e il vigore della memoria, soprattutto privata, diventano struggente poesia così come l’emozione diventa commozione. La bravura espressiva, la perfezione semiologica e compositiva - pur di alto livello - non danno l’immagine totale di questo artista. Dugo, infatti, arriva a toccare il segreto, il confine del mistero della poesia e questo sì che riguarda soltanto pochi fra i tanti artisti: e lui è fra questi pochi. Per questo il lettore delle sue incisioni “dialoga” con i ritratti della sua incantata e abbacinante galleria. E il linguaggio e ad un tempo cordiale e tenero ma anche ironico. C’e bisogno di aggiungere che con lui si conclude la storia dell’incisione novecentesca? Si conclude ma si apre anche perché dopo il suo intervento l’incisione già percorre un nuovo itinerario.
(Venti anni di incisione, Ottobre 1995)