Joško Vetrih

Franco Dugo

Viviamo in un’epoca in cui i grandi temi dell’arte (per non parlare di quelli della letteratura, della filosofia, della religione) sembrano aver perso gran parte della loro fascinazione, e la loro presa su di un pubblico più che mai frastornato dall’estrema frammentazione del messaggio artistico e da quel continuo svillaneggiamento di ogni seria attività intellettuale e di ogni impegno morale che caratterizza la società del giorno d’oggi, risulta decisamente svigorita. A questa perdita di valori, che investe direttamente i contenuti, i grandi temi dell’arte, si aggiunge anche la tendenza a una radicale spersonalizzazione, e conseguente svilimento, che i fondamentali mezzi di espressione artistica, come il linguaggio, lo stile, la tecnica di esecuzione patiscono di continuo in una società condannata al progressivo appiattimento culturale indotto dall’efficientismo organizzativo e produttivo. Non è perciò per nulla strano se in un clima simile sono ormai pochi gli artisti che amano ancora confrontarsi liberamente con i grandi temi della creazione artistica, e che non rinunciano a servirsi per i loro scopi del segno, del colore e del piano bidimensionale della superficie pittorica, da essi giustamente considerati come i più personali, tradizionali ed esclusivi mezzi espressivi della pittura.
Franco Dugo è certamente uno di loro. Fin dagli inizi egli si è occupato costantemente dei grandi problemi dell’uomo, delle sue paure, delle sue speranze e passioni, dei suoi errori, delusioni e contraddizioni; ha ricercato il senso della verità e dell’autenticità del sentimento nei volti di chi gli stava intorno, fossero essi famigliari, amici, conoscenti; ha analizzato con simpatia ma anche con ironico distacco i volti dei personaggi della cultura e dell’arte per cogliervi i segni della loro grandezza o per scoprirvi il lato oscuro del loro animo; ha inseguito quella scintilla di umanità che al di là di ogni dolorosa consapevolezza della loro contingente condizione esistenziale continua ad ardere anche nei volti degli umili, degli esclusi, di coloro che si muovono ai margini della società e della legalità. E anche sotto il profilo formale egli appare ben lontano dall’ormai diffuso desiderio di snaturamento o di vero e proprio annientamento dei mezzi espressivi (in cui, a mio parere, si nasconde la più o meno consapevole tendenza all’autodistruzione propria dell’odierna civiltà), che sembra segnare gran parte dell’arte contemporanea ed è, al contrario, sempre attento a usare un linguaggio riconoscibile, pronto a cogliere ogni minimo suggerimento proveniente dalla realtà, che sia in grado di rendere conto della perizia, della preparazione e dell’impegno da lui profusi nel proprio lavoro. Grazie alla padronanza acquisita nel campo delle esigenti pratiche calcografiche (padronanza che non può prescindere dall’inequivocabile abilità disegnativa che sta a monte), e grazie anche alla sicurezza con cui si è sempre mosso in modo coerente nell’ambito di un figurativismo naturalistico che si è andato costruendo su misura nel corso degli anni, egli è stato in grado di mantenere un atteggiamento molto cauto nei confronti delle tendenze moderniste improntate e alla sempre più accentuata scientifizzazione dell’esperienza estetica.
Conosco Franco da ormai quasi cinquant’anni e ho avuto modo di assistere alla sua prima personale allestita nel 1972 alla galleria Il Torchio di Gorizia. Si trattò, allora, dell’esposizione di una ventina di suoi dipinti a olio di impianto figurativo realistico, che colpivano sia per i loro contenuti intimistici attinenti alla vita quotidiana e al paesaggio friulano, sia per il tratto pittorico forse ancora piuttosto incerto nella stesura, ma nello stesso tempo anche già molto personale e incisivo. Quando qualche anno dopo ebbi modo di vedere le acqueforti della serie da lui in seguito intitolata Racconti-lacerazione, debbo dire che la mano del disegnatore d’istinto c’era già tutta, quella mano che gli fu senza dubbio di grande sostegno nella scelta del mezzo espressivo e dei motivi dei quali si serviva per metaforizzare nei modi propri di un allucinante simbolismo figurale le paure e le ossessioni che avevano caratterizzato il suo periodo formazione o, per meglio dire, di autoformazione umana e artistica. Sesso, pazzia, paura, rabbia, morte sono i temi dominanti delle stranianti chine e incisioni al tratto di quel tempo, che con la loro scrittura surreale rappresentano per l’artista anche una resa dei conti con il proprio passato, un mezzo incruento per liberarsi delle proprie pulsioni e passioni giovanili, di abbandonarsi alla piena travolgente delle fantasie introspettive sulla base delle quali impostare una specie di gioco visionario e drammatico. Nello stesso tempo questo suo linguaggio nervoso e barocco rende definitivamente conto anche della sua straordinaria abilità disegnativa, che si esplica in modo particolare nella dettagliata descrizione iconografica dei mostruosi garbugli formati da facce urlanti, parti stravolte e lacerate di corpi umani e animali, oscene protuberanze, ammassi di interiora, tubi, corde, catene di budella e oggetti che si trapassano fluttuando nello spazio bianco del foglio simili ai residui di un’esplosione primordiale.
Quando ultimamente, durante la preparazione di questa mostra, ho fatto visita a Franco nel suo studio, posto davanti ai suoi lavori più recenti consistenti in una serie di oli e di piccoli acquerelli che dal punto di vista tematico si riallacciano per certi aspetti al ciclo dell’Uomo dei castagni da lui iniziato una dozzina d’anni fa, non ho potuto fare a meno di riandare col pensiero proprio a quei suoi lavori ormai lontani nel tempo, nati in anni che rappresentano un importante punto di svolta nella sua vita. Erano anni di studio e di lavoro, anni in cui, dopo aver fatto i conti con il proprio passato, con un deciso atto di autodeterminazione che rivelava grande consapevolezza e fiducia nelle proprie forze, egli decideva di imprimere una svolta decisiva alla propria esistenza, ponendo in atto quelle condizioni di libertà e di indipendenza che gli consentissero di dare un corso nuovo alla propria vita. Una vita che aveva sempre sognato di fare, ma dalla quale era stato tenuto lontano dalle esigenze legate al normale svolgersi dell’esistenza di studente e di impiegato che aveva condotto fino ad allora e che, pur dandogli una certa sicurezza economica, gli aveva impedito d’altra parte di dedicarsi completamente al lavoro artistico. Sentirsi finalmente liberi, padroni delle proprie azioni credo sia una sensazione che non si possa dimenticare tanto facilmente. Una decisione così radicale di cambiare vita io non l’ho mai presa, ma penso che la sensazione che si prova sia molto simile a quella che ci pervade quando, dopo una lunga malattia, mettiamo finalmente piede fuori di casa per la prima volta in una bella, luminosa, calda giornata di primavera, che ci fa dimenticare per un momento le lunghe ore trascorse al chiuso, in preda a dubbi e paure, che non possono non aver lasciato un segno in qualche parte della nostra anima; segno che però non ci preoccupa minimamente a cospetto del senso di liberazione, di incontenibile gioia di speranza che ci pervade in quel momento.
Nelle serie di incisioni realizzate nella seconda metà degli anni settanta, dopo i Racconti-lacerazione, si possono leggere facilmente gli effetti che la nuova svolta impressa alla propria vita stava producendo nell’arte di Dugo. I ricordi famigliari e personali, la vita d’ogni giorno, le relazioni domestiche, le amicizie, le letture, le ambizioni e le esaltazioni intellettuali, le conquiste e le conoscenze acquisite, la possibilità di viaggiare, di studiare da vicino gli artisti più amati, le relazioni sempre più fitte con la società e la vita culturale e politica del tempo diventano ora materia di riflessione artistica nel quadro di un recupero di quei valori formali della tradizione classica (nel senso di esemplarità, eccellenza e perfezione), che da allora in poi segnano la sua opera attraverso lo studio e la continua ricerca della perfezione e della qualità assoluta, sia nella grafica sia nella pittura. Se nelle movenze e negli atteggiamenti dei soggetti che caratterizzano il ciclo dei disegni e degli oli sul tema dei Corvi si annida ancora un po’ di quella enfasi espressionista che aveva improntato le sue opere iniziali, e se la maschera dell’uccello di malaugurio (che in altri tempi e luoghi oltre a quello di profeta e di messaggero degli dei ha avuto anche un ruolo di demiurgo e di araldo del rinnovamento), serve ancora a recare annunci di morte e di sventura o a nascondere sotto un’apparente espressione di impassibilità i segni inquietanti dei disagi, delle delusioni, delle paure, dei dubbi e dei misteri che spesso non riusciamo o facciamo finta di non vedere nell’Altro o addirittura in noi stessi, nei lavori degli anni seguenti tutto ciò cede sempre più il posto il posto a un approccio completamente diverso con la realtà, un approccio che presto reca con sé anche un reale e profondo cambiamento formale. Quell’incontenibile, furioso desiderio di mostrare la propria bravura, di sommergere lo spettatore con immagini di grande impatto visivo, sempre un po’ troppo ridondanti ed espressive, cede il posto a un uso più meditato e controllato del segno, a una maggiore armonia compositiva, a una ricerca più ponderata di soggetti in grado di adattarsi in maniera compiuta alle esigenze narrative e alle preoccupazioni stilistiche e formali dell’autore. A segnare il cambiamento sta quell’Omaggio a Caravaggio (il primo di questi ”omaggi”, cui seguiranno quelli, magnifici, a Rembrandt e a Dürer), nel quale appare evidente tutto l’entusiasmo intellettuale mutuato dalla conoscenza appassionatamente coltivata degli autori classici, che gli consente di reinterpretare in maniera molto personale temi e situazioni che altrimenti potremmo considerare come delle semplici citazioni. In questa prospettiva il riferimento alle opere dei classici costituisce, sul piano delle soluzioni pittoriche, poco più di un pretesto ragionevole inteso a suscitare un clima emotivo che va chiaramente al di là della rappresentazione pura e semplice del soggetto.
In un crescendo di risultati sempre più notevoli per tematiche e virtuosismo esecutivo, assistiamo nella seconda metà degli anni settanta e nei primi anni ottanta all’infittirsi di una produzione che trova il suo punto di forza nei cicli di incisioni e di disegni realizzati con le tecniche più varie, che costituiscono una testimonianza ineludibile della sua vis creativa. Dalle schede delle Identificazioni al Ratto della Gioconda, dal ciclo intimistico dedicato ai ricordi famigliari ai fogli centrati sul motivo dello studio dell’artista, egli affronta storie che gli permettono di mescolare realtà e invenzione, rivangare nostalgie, ritrarre volti del passato conosciuti spesso soltanto attraverso testimonianze fotografiche, di affiancare a queste figure altre scaturite dalla sua fantasia. In questi lavori la minuta analisi del volto e del corpo umano non riesce a nascondere il desiderio di cogliere ciò che sta sotto, di fare affiorare l’anima del personaggio attraverso la obiettiva fedeltà al dettaglio. Il disegno inteso come linguaggio adatto a esprimere soprattutto idee corrisponde perfettamente al desiderio di prendere possesso della realtà, di entrare in sintonia il mondo reale: almeno per il momento, la figurazione non ha per lui fini mimetici ma dà forma alla realtà semplicemente rappresentandola.
Nell’Atelier appare forse per la prima volta quella figura androgina che ricompare poi anche nel ciclo En pose e diventa protagonista assoluta di un’indagine sulla natura umana nel ciclo di disegni a tecnica mista intitolato La danza di Salomé. Alle mobili, lucide, plastiche superfici di un corpo androgino con il volto nascosto impegnato in un’agile danza su uno sfondi tempestosi e corruschi, Dugo affida il compito di una riflessione sulle ambiguità e le contraddizioni che condizionano il nostro modo di guardare alla realtà, sull’assurdità dei nostri pregiudizi e sulla inevitabile capziosità e sottile perversità di ciò che noi siamo soliti considerare in generale come semplice, innocente buon senso.
A partire dalla metà degli anni ottanta alle incisioni si affiancano sempre più numerosi i disegni a grafite, a matite colorate, a pastello e gli oli su tela, nei quali Dugo raggiunge la perfezione stilistica con la serie dei ritratti di famigliari, amici, colleghi, critici d’arte, di personaggi del mondo dell’arte, della letteratura, del jazz, del pugilato e con i cicli dedicati ai Cipressi, all’Uomo dei castagni, alla Crocefissione. I disegni e le incisioni a tecnica mista sul tema dei Cipressi, nei quali i grovigli dei suoi cicli giovanili acquistano la dignità di un soggetto classico, introducono il tema della natura, che negli anni seguenti diventa prevalente nella sua produzione. Realizzati a olio e a pastello, in un indovinato connubio tra disegno e colore, i suoi sono Paesaggi di grande nitore e trasparenza, che si allargano in luminose fasce cromatiche a segnare ampi orizzonti sotto cieli immensi cosparsi di nuvole. Immersi nella ferma atmosfera di una campana di vetro, in procinto di sciogliersi in una fuga di forme evanescenti, non rispecchiano passivamente una data realtà interiore, ma raccontano l’emozione di guardare alla natura attraverso una riflessione in cui confluiscono tutte le esperienze di vita dell’autore.
In alcuni lavori del suo ciclo più recente, nei quali Dugo riprende in chiave molto diversa le enigmatiche iconografie che costituivano la cifra stilistica più evidente dell’Uomo dei castagni, la sensazione di calma e di muta attesa che emana dai dipinti, estremamente sobri e misurati, l’assenza di stimolanti sollecitazioni cromatiche e di virtuosismi esecutivi che ne alterino in qualche modo l’equilibrio compositivo e narrativo, testimoniano l’estrema concentrazione tematica e formale raggiunta da Dugo nella sua ricerca del vero più vero. La ricostruzione del paesaggio che funge da sfondo avviene al di là di ogni pedissequa riproduzione della natura, che viene sfoltita e simbolicamente compendiata fino ad assumere una valenza puramente spaziale, atmosferica. Gli alberi non sono più i grandi castagni degli anni novanta: ridotti a una trama lineare di tronchi e di rami che emerge a malapena da uno sfondo cromaticamente uniforme, essi non incombono più con le loro chiome smisurate sulla minuscola figura posta nell’angolo in basso, ma formano con la sottile trama dei loro intrecci un sipario scuro e compatto, che sembra inghiottire pensieri, sensazioni, sentimenti, moti dell’anima e del corpo. Del tutto simile ad ogni altro elemento della natura, al centro di un impianto compositivo che divide manicheisticamente in due metà – una scura ed una chiara – la superficie pittorica, l’Uomo-Dugo sembra esitare davanti a quell’oscuro limitare del bosco, dal quale non proviene alcun movimento, suono o altro segno di vita. Lo sguardo rivolto alla terra incognita che gli sta davanti, egli sembra interrogarsi sulla via da prendere, ora che le laceranti passioni giovanili si sono acquietate, i ricordi si sono diradati, le prospettive sono parzialmente cambiate ed è mutato, almeno in parte, anche il desiderio di quella immediata, sorprendente percezione e altrettanto puntuale ed esaltante trascrizione del reale, che aveva sempre sostenuto la sua appassionata indagine iconografica del mondo in cui viviamo.
(Allegorie, tre stazioni per un percorso d'arte, 2009)