Enzo Siciliano

Per Franco Dugo

Franco Dugo viene dall’est. Ma non ha una sensibilità da trapiantato: - il suo è il percorso di chi ha cercato una spoliazione da ossessioni intellettuali che, certo, hanno inciso non poco, lungo il tempo, su sensi e mente.
Fantastiche proiezioni di immagini viscerali. “Donne sventrate che partoriscono fontane d’intestini e cordoni ombelicali falliformi, macabri ex libris abitati da osceni felini ed anatomici mazzi di fiori, remiganti corpi stellari traforati da trippe spaziali e da ventricoli luminosi”, ha scritto Marco Vallora.
Era “la forza dirompente” di un volto a dominare l’immaginazione di Dugo, ha scritto poi Marco Golden, - dove per “forza” va intesa la levitazione furente dell’inconsio, o la segreta malattia dell’essere, osservati, analizzati a puntasecca impietosamente. Proprio con furore.
Il furore dell’intelletto conosce ostiche freddezze, astio, forme di inimicizia verso immagini familiari.
L’espressionismo, in tutte le sue modalità, ha elaborato tali processi – una doglia astratta che pare scorticare percezione psichica e invenzione fantastica.
La grafica europea venuta dal nordest – Vienna, Praga e dintorni – nel secolo ormai chiuso, ha offerto spesso visioni come testimonianza di rabbia o di analisi accanita della psiche. L’uomo trattato come un nodo di simboli, fisiologia a cielo aperto, appunto, budella scalpellate dal bulino, occhi che perforano spazi interiori, il cuore che è solo una pompa ansimante, su una terra asciugata e distrutta dal gelo di un inverno nero. Quest’arte non ha mancato di trovare fra noi eco neanche alta. Penso a Guerreschi, a quel suo realismo velato da fuliggine – fuliggine anzitutto mentale, e stanze invase da polvere di metalli residui. Dunque, Dugo: con i suoi cicli a puntasecca, dove la sperimentazione tecnica pare rifiutare la stessa eccitazione dello stile, e accanirsi sulla resa lineare dell’ombra e della luce.
I temi: Monna Lisa e il furto della Gioconda, la posa provocatrice della ginnasta nuda recuperata da una foto di Mapplethorpe, la serie dei grandi alberi, le foto dei genitori, le foto di famiglia, i boxeurs, gli autoritratti, poi Rembrandt e i tanti ritratti di artisti e no, sempre esumati di fotografie – magari fotografie degli anni dieci e venti lavate dal tempo, o considerate sudari del tempo, ocra pallidissimo. L’ombra e la luce danno al bianco il livido dell’avorio, al nero, certe volte, l’estenuazione d’un tritato di tabacco.
I visi, in quei ritratti, hanno un’esattezza realistica (non a caso, fotografica) quasi neogotica nel tratteggio – il Rinascimento portò i fiamminghi a Praga come a Venezia, per esempio. Quell’esattezza, oggi, però, trasmette un vago palpitare di surrealità, come fosse un segreto dissuggellato – o un’eco di romanticismo.
Anche la Secessione fu romantica, lo fu lo Jugend – le linee nere del disegno, che incidevano la tela, il foglio “come una condanna” (con quanta felicità, Roberto Tassi, adocchiata una metafora, la calzava al punto giusto…), inoculavano il senso di una tragedia inesplicata, inesplicabile. Già i romantici del nord avevano cercato di stanarla.
Quella voglia di far salire l’Acheronte alla luce del giorno – il senso della morte, che tutto legò nella grande avventura viennese (e monacense) – è acquattata come un’ombra velenosa dentro la posa sempre ferma dei ritratti di Dugo. Rembrandt, il suo Rembrandt, 1990 per esempio, bulinato a puntasecca, porta un berretto che per una impercettibile piega sulla fronte diventa atto derisorio. Ma, verso chi? La faccia sconcertata, il pittore della Ronda di notte, ha un naso rigonfio forse di vino, baffi sensuali, mascelle che con foga macerano carne di montone. Lo stilo sottile fra indice e medio scarta da tutto questo, come lo sguardo – una fissità acuminata e desolata che punta oltre e va laggiù, in quelle lontananze dove l’arte è irretita dalla morte – un’idea dell’arte, della poesia, devastante e tragica, ultima spiaggia dello spirito.
Quell’occhio di Rembrandt, nello stilo di Dugo, guarda verso trasgressioni appena profilate, ironie che macerano i tessuti nervosi – è l’occhio tutto sommato di una vittima, e di un voyeur.
Un voyeur metafisico, che vorrebbe abolire la natura, e con crudeltà cogliere solo fantasmi, tracce di oggetti, e li emulsiona o li compenetra secondo irrazionali criteri di convivenza.
La derisione di cui dicevo, è indirizzata verso il senno della realtà. I romantici se ne nutrirono – fino a dannare la loro stessa mente (da Holderlin a Nietzsche a Nižinskij, quanti di loro, i più diversi, si trovarono chiusi nella letargia della demenza…). La realtà poté essere per molti soltanto un presagio di orrori, o una visione beatifica così irraggiungibile da capovolgersi in una luttuosa seduzione.
D’altra parte, su questa linea, gli omaggi di Dugo a Durer (1983-1988) vanno a inserirsi più che giustificati. Adamo il ricciuto la vince su Eva: è lui in primo piano; la foglia di quercia che gli copre il pene non lo cancella, è un pene essa stessa. La mela, il serpente, il gatto e il topo, nella perfezione dei chiaroscuri, sono oboli funerari.
Di Dugo, Durer desidera ripristinare la melancholia – stampata negli occhi dei suoi personaggi , - gli occhi di Rossigni, di D’Annunzio, di Caravaggio, di Nievo, eccetera.
Quella melancholia è il segno dell’arte, la “ferita” che ogni artista sente incisa nel proprio cuore, nella propria mente. Questo è il leggendario che Dugo ha in certo senso amato – anche vezzeggiato. O se ne è lasciato vezzeggiare tanto da apparire coinvolto in una acribia contenutistica invece che rapito dalla rappresentazione pura.
Golden, sul conto suo ha ricordato anche il nome di Ferroni, giustamente.
Poi, Ferroni lo ritrovi solitario fare le proprie devozioni a Morandi, al monastico Morandi – quei lettucci schiacciati, nella perfezione di una luce avara, sotto una parete scialbata male, antropomorfici, tremanti persino.
Sembra, invece, Dugo – o sembrava, negli anni ottanta in specie, preso dai suggerimenti di Beckmann, di Kathe Kollwitz, o in moto parallelo da Jirì Anderle – accanito nella sua poetica citazionistica, esumativi. “Il sogno scese in volo, venne portato giù dal cielo” (Kafka).
Oppure, ancora Kafka: “Poseidone si annoiò dei suoi mari. Il tridente gli cadde di mano. Silenzioso sedeva sulla costa rocciosa e un gabbiano, stordito dalla sua presenza, gli tracciava cerchi barcollanti intorno al capo”.
Kafka va oltre i contenuti – e va oltre il romanticismo: ma è come vi avesse posto sopra il bollo di ceralacca, un sigillo impossibile da lacerare. Per lui le religioni si perdevano come gli uomini – figurarsi le religioni estetiche. Comunque, quelle immagini – il sogno che scende dal cielo, e Poseidone annoiato e il gabbiano stordito – siglano un’età dell’angoscia ancora non estinta nell’animo umano.
Di nuovo Kafka: “Come sono arrivato fin qui? Era una sala di media grandezza, illuminata da una tenue luce elettrica; camminavo a gran passi lungo le pareti. C’erano alcune porte, ma aprendole ci si trovava davanti a una scura e liscia parete di roccia, che distava appena un palmo dalla soglia e correva dritta verso l’alto e ai due lati, perdendosi in lontananze invisibili. Non c’era via d’uscita”.
Non si può dire che Kafka sia contenutista, proprio perché non è citazionista. Ma il suo esempio è stato accecante. L’ossessione dell’esistenza ha trovato in lui parole che non si scontano con facilità.
Daccapo, daccapo, respinto lontano, respinto lontano.
Monti, deserto, terre aperte
Si tratta di attraversare.

Ma attraversare, come? Verso dove?
Chi è venuto dopo, dopo Kafka, ha stretto in pugno, per il salvataggio, pegno di sopravvivenza, la corda della storia lungo la quale ha trovato altri pegni, i miti che l’arte ha elaborato. Li ha citati, se ne è fatto ricco. Kafka dice anche: “Lontano, lontano procede la storia universale, la storia universale della tua anima”.
Ma quella storia esiste. La lontananza – una lontananza di fatto – non è un errore sulla sua bocca, quanto una constatazione di fatto, pronunciata con il disincanto derisorio, e comico, che era suo. Quella lontananza toglie ai presagi di orrore ogni perentoria, pervasiva presenza.
“Oplà, noi viviamo” anche di questo e per questo: va detto.
Con i ritratti realistici a puntasecca, ricavati da vecchie foto – proprio I ciclisti, e il padre in divisa da carabiniere per esempio, - Dugo ha cercato di cogliere i modi in cui antiche, perdute immagini possono guizzare in modo fulmineo nel presente.
Sono ritratti datati al 1988, ’89, ’90. La realtà ha preso l’incisore al collo. Il violinista, Il dottor Menenio, Teresa, tracciano modi di un dolore contenuto, ma non sottoposto a sordina, che il vero suggerisce. Ma lo suggerisce solo se l’oggetto viene liberato, ripulito, dall’aura infetta che il decadentismo sentimentale vi fa scolare volentieri.
La punta secca di Dugo ripulisce, infatti. I suoi visi sono spinti verso la soglia irripetibile della loro unicità. In quei ritratti cede la dipendenza di Dugo dalla cultura figurativa e visiva post-secessionista. Ne resta la perizia appresa – e la bellezza passa oltre i contenuti. Il padre carabiniere, con l’elmetto in guerra, o col tubino la bandoliera e nelle dita una sigaretta (fuori ordinanza e punibile, per quei tempi), o la mantella e la lucerna su una sedia (sempre la sigaretta fra indice e medio), - questi ritratti del padre carabiniere sono proprio armoniche incisioni, intatta rappresentazione, ed elegia senza elegia, ricordo senza ricordo, impressione senza impressione. La vecchia foto è sparita, e resta, vivo lo stile, l’abbraccio della forma. La realtà del sentimento ha vinto la pregnanza, anche ineludibile, della cultura.
Le teste dei Boxeurs, puntasecca a mezzatinta, data 1990, nasi schiacciati, labbra cicatrizzate, il marchio della fame e della brutalità, con il bianco ed il nero che mordono i lineamenti, ne scavano lo spessore o il callo delle lotte combattute, tutte perse pure se vinte, possono ricordare per plasticità certi ritratti di Lucine Freud. Le foto sono, 1928, di August Sander: classiche, bellissime (quasi un Pasolini anticipato).
In Dugo, non la ricreazione di una “nuova oggettività”: invece l’assillo di penetrare il senso doloroso dell’esserci di un uomo, la sua fatica di vivere, le sue piaghe, o la ferocia che ha dovuto spendere per fare bocca a bocca con l’esistenza. Così, la melancholia dell’intelletto è diventata dolore puro. Cogliere nell’apparenza del volto umano la straziante anonimia, che è poi di ogni individuo, è un risultato d’arte. La grande perizia tecnica, qui, pure utilizzata per intero, spallidisce nel pudore fiero della poesia, o nella timidezza commossa della poesia.
Del loro ritratto, di una loro fotografia, questi boxeurs, questi uomini, non avrebbero saputo che farsene – in loro traspare lo stupore, sempre insidiato da estasi ed infelicità, dell’idiota dostoevskjano. Per questo, risalta, nella loro fisionomia, soltanto un significato tragico, enorme.
L’elaborazione ed il raffinamento della percezione fisionomica sono rimessi da Dugo, in questo caso, a decifrare un percorso che arriva sempre e soltanto allo svelamento di un dramma tra i più noti, il dramma sempre nuovo e vecchio dei dannati della terra. Quello del boxeur è anche un mestiere sordido – metafora di una cruda, sanguinaria lotta di sopravvivenza, mestiere di canaglie che non sanno d’esserlo, mestiere di sfruttati endemici. Ma Dugo ha inciso questi ritratti con l’altezza di un requiem – epico addio a quella sordidezza ed a quella torturata innocenza.
Ultima stagione di Dugo – nel tramonto degli anni novanta. Amore per il pastello – dolcezza di paesaggi, di luce e plasticità “veneta”. Dice Golden, che Dugo ha ricavato dalla pasta di polvere colorata “una storia dei cieli”.
In quei cieli a pastello c’è il vento, un vento che investe colline e pianura – un vento che è carico di memorie, di passato, di accensione innamorata.
Le acqueforti dei Cieli di bora, dei Paesaggi ventosi (1998-1999), di quella “storia” disegnano le spire nervose, la panica spiritualità. E il romanticismo (vedi Poco prima del temporale, acquaforte 1999) riprende piede, dà senso allo spazio – spazio vuoto con cieli trascorrenti di nuvole e nebbie, spazio pieno con intrico d’alberi e ombre di boschi.
Appunto, il bosco. Le acqueforti dell’Uomo dei castagni, sempre 1999, suggeriscono, aderente la luce allo spessore del corpo, quanto l’ombra sia uno sprofondare dentro la bellezza di forme sfuggenti ed impastate fra loro, enigmatiche.
Ma questa enigmaticità ha un’estensione musicale, plasmata nel flusso dell’aria. Se c’è una linea da recuperare, dico di una linea d’arte italiana, casomai il nome da fare, per un’eco leggera, è quello di Bartolini, il Bartolini sensuoso della Passeggiata con la ragazza, che ama il sottobosco, l’intrico dei nidi fra i rami dei quercioli, che ama gli “alberi giovani”.
Ma su questi paesaggi, per questi cieli spalmati dal vento, per queste strade e schiene di collina stremate dalla fiamma dell’estate, e dal gelo dell’inverno, o sulla scorza nuda, secca come la coscia di un uomo asciugato dall’età, di vecchi, nodosi cipressi, non c’è l’aura sofisticata, estetica del Novecento. Nel romanticismo di Dugo vibra sempre lo smacco realista, un sentore di esplicita rivolta contro i rigori della stessa realtà.
L’ariosità del paesaggio si esprime in un trasvolare che esalta o dissangua. Nei visi in acquaforte – ancora i boxeurs di Sander, o certi fumatori di sigaretta, o nella splendida Due teste (1996) – c’è, quasi per uno scatto della mano, nell’asprezza sollecita e insidiosa dello stilo, un brivido d’angoscia e d’amore, il bisogno di salvare da distruzione certa ansia conoscitiva che attanaglia chiunque si senta vivo al mondo pure se ferito a morte.
Resta, insomma, in questo vero artista della lastra o del cartone modellato a pastello, la passione per un’espressione sacrificale, religiosa dell’uomo e dei suoi sentimenti profondi, - vedi gli Uomini in croce (1995-1999): dove la nudità completa, quasi ostia di comunione, il viso insaccato fra le spalle, il fascio muscolare appeso in dolente, torturante sospensione (la miracolosa punta secca su zinco, Deposizione, 1999), se è polpa al macello, dice che lo spirito, là dove è offeso, non è mai ucciso: è risuscitato, accarezzato, baciato dai mezzi quanto mai poveri dell’arte.
Ancora Kafka: “L’arte vola intorno alla verità, ma con la ferma intenzione di non bruciarsi. La sua abilità consiste nel trovare un luogo, nella vuota oscurità, in cui il raggio di luce, senza che prima sia stato possibile accorgersene, possa essere catturato in tutto il suo vigore”.
(Incisioni 1989-1999, Treviso, Casa dei Carraresi, Conegliano, 1999)