Alessandro Quinzi

Con l'avallo delle nuvole

Abbracciando con uno sguardo d’insieme il corpus artistico di Franco Dugo ci si accorge del progressivo eclissarsi della figura umana, che tanta parte ebbe nella sua ispirazione e produzione incisoria e pittorica. Basti pensare alla copiosa produzione di ritratti dedicati ai personaggi del mondo dell’arte, della musica, della letteratura dei quali carpire, con il volto, i segreti dell’anima. O ai viaggi compiuti seguendo la propria anima, sulle tracce del padre mai veramente conosciuto; o agli omaggi tributati alle persone semplicemente amate o rispettate perché si sono messe in gioco con il loro intelletto oppure incassando i colpi della vita con il proprio corpo, come i boxeurs.
Col tempo questa figura umana è stata lentamente quanto inesorabilmente sopraffatta da un’altra forza, quella dalla natura e il “Grande albero”, che compare sull’orizzonte artistico di Franco Dugo nel 1989, come nota Giancarlo Pauletto, ha il valore di uno spartiacque. E con gli alberi il cielo, che diverrà il soggetto privilegiato degli ultimi cicli creativi. Un cielo che incombe, minaccioso, sulla terra, con la quale è ancora in rapporto e sotto il quale attendere, con Giovanni Fierro, “l’inconciliabile scontro, l’inforcarsi / fra le ruvide / masse d’aria, calde / e fredde, l’incomprensione di due verità / che si sfidano, il vento le spinge, il duello”1.
Verso questo cielo carico di presagi s’innalzano steli, elementi artificiali, “diapason spaziali” per usare un termine di Guido Giuffrè, con i quali rapportare ancora la terra alla misura dell’uomo. E poi i paesaggi crepuscolari, specialmente quelli realizzati in pastello, che conservano e trasmettono, nell’immediatezza del gesto, i caldi umori di un giorno che si sta spegnendo nelle luci affocate e ancora palpitanti di vita.
In questo ciclo di cieli, dell’uomo non rimane che una labile traccia, un’impronta in sottofondo, distinguibile nella silhouette di un paesaggio che si direbbe postindustriale. Oppure si intuisce il breve riflesso della sua presenza nella sottile scia spumosa lasciata dal passaggio di un’imbarcazione o nel leggero incresparsi del mare.
E con l’uomo si ritira anche la terra, l’humus del quale egli stesso è impastato, per cedere il passo alla superficie dell’acqua, che è poi la stessa sostanza di cui sono composte le nubi, le vere e uniche protagoniste di questa serie di oli, tutti realizzati dal mese di marzo di quest’anno.
Le nubi, dunque, la maestosa bellezza dei cumuli multiformi, possenti e al tempo stesso impalpabili banchi di pulviscolo acqueo, che si offrono come corpo, come pretesto o opportunità per la pittura, per fare pittura. Lo si legge specialmente in alcuni passaggi, che questa mostra utilmente registra, dove la pennellata si fa più libera, diretta, meno soppesata e il colore è steso in modo più pastoso nel dar corpo e forma alla visione, che si presta ad essere apprezzata anche da vicino. E vi si può notare anche una tendenza alla semplificazione cromatica, con i contrasti di luce la cui drammaticità è raffreddata da un pittura accordata sul registro evocativo del blu, dai chiarori dell’azzurro e del celeste, alla profondità del blu notte e cobalto, prossimi ma non sovrapponibili al nero. Emerge, in sostanza, una sensibilità nella regia luministica che non può essere disgiunta dalla pratica calcografica, campo nel quale Dugo è riconosciuto maestro, e pare anzi mutuata in particolare da quelle conoscenze alchemiche sedimentate e maturate con la preparazione delle lastre per le morsure delle acqueforti o le graniture delle acquetinte.
Ma quello che Franco Dugo coglie in questi cieli non è l’istante impressionista, che vuole appagare l’occhio dell’atto creativo.
È semmai un fermo immagine, un qui e ora nello spazio e nel tempo della fisica classica. È un invito alla riflessione sulla nostra esistenza transitoria, simile nella sua ruvida bellezza ai versi sciolti della poetessa tedesca Hilde Domin che ben si prestano, in chiusura, a ritrarre l’anima di questi paesaggi e, perché no, anche quella del suo autore.
 
1 Giovanni Fierro, Il riparo che non ho, Le voci della luna, Sasso Marconi (BO), 2011
(Catalogo della mostra "Il cielo, il mare", studiofaganel, belo189, Kinemax, Gorizia, 2017)