Giancarlo Pauletto

Indagare l'apparenza, indagare l'essenza

Non so se questa mostra goriziana – che ripercorre così ampiamente gli ultimi venti anni del suo lavoro – induca Franco Dugo ad un bilancio particolarmente approfondito della sua posizione d’artista: sono infatti quasi trent’anni che egli sta sulla breccia, senza contare la preparazione precedente, mai investigata in pubblico, ma necessariamente intensa se in una delle prime mostre che appare in curriculum – quella di San Pier d’Isonzo del 1974 – egli si propone già come un disegnatore indiscutibile, anzi, come un virtuoso, e già mette in evidenza una serie di idee il cui approfondimento lo condurrà poi – con un percorso che visto oggi sembra predeterminato – alle posizioni attuali, che sono posizioni di massima concentrazione figurativa, a loro volta collegate ad un massimo di capacità tecnico-esecutive.
Basta, a questo proposito, osservare per esempio uno qualsiasi dei suoi paesaggi a pastello, anche prescindendo dalla riuscita estetica – poiché non è questo che ora si investiga, ma l’atteggiamento che il suo modo di fare, sempre, rivela nei confronti della realtà e dell’arte medesima. Quel che si nota subito è il fatto che non c’è trasformazione: non c’è apparentemente trasformazione del dato visivo.
Certo, se parliamo di paesaggio, vediamo che esso ha un taglio, e questo stabilisce una scelta. Ciò tuttavia è inevitabile, non si dà che l’artista possa fare a meno di scegliere, visto che ben definito è il campo su cui deve operare, e che pertiene appunto a lui alzare o abbassare il punto di vista, spostarlo a destra o a sinistra: ognuna di queste decisioni appare tanto inevitabile quanto ovvia e si collega ad un punto figurativo specifico: a Dugo interessano soprattutto le distese dei cieli, rispetto ai quali la terra – la fascia di terra che abitualmente occupa la parte inferiore del quadro – è elemento certo importante, ma dialettico, almeno fino a quando il pittore non decida diversamente; ciò che tuttavia qui importa constatare è che, all’interno di queste scelte, egli compie il massimo sforzo di adeguamento a quella che potremmo definire la nostra comune esperienza visiva, tutti questi paesaggi e questi cieli, se anche siano perfettamente inventati, intendono venir percepiti come immagini di realtà, non come proiezioni più o meno elaborate di essa.
Ma – e qui sta il punto – Dugo sa bene che ogni sguardo è diverso da ogni altro, che i confini di ogni precisione collimano con quelli di nessun’altra, che ogni trasparenza d’azzurro ci incanta diversamente, che ciò che entusiasma alcuni, da altri neppure viene percepito, che questa luce, la quale mette me in orgasmo, non tocca persone che la vedono nello stesso istante in cui la vedo io.
E che quindi il valore di un’immagine – diciamo meglio: ciò per cui essa può venir percepita come valore, e anzitutto da chi la costruisce – non sta nel diverso grado di vicinanza o lontananza da un ipotetico reale, ma nella corrispondenza tra intenzione e realizzazione tecnica, nel fatto che, all’interno dell’immagine stessa, sia assente la contraddizione o – per lo meno – essa sia avvertibile il meno possibile.
E’ il medesimo criterio estetico che anima Reger – l’anziano musicologo protagonista degli Antichi maestri di Thomas Bernhard – il quale si reca un giorno sì e un giorno no al Kunsthistorisches Museum di Vienna al preciso fine di scoprire gli errori, le pecche, insomma le defaillances dei più celebrati quadri, e va concentrando in particolare la sua attenzione sull’Uomo dalla barba bianca di Tintoretto, unica opera fino a quel momento sfuggita alla sua certosina ricerca d’errore. Reger non è figura nella quale Bernhard incarni il sadico piacere di distruggere la perfezione: al contrario, si tratta di un personaggio che assai dolorosamente constata l’impossibilità della perfezione, constata cioè che la ragione analitica distrugge il mito: il mito di cui l’uomo ha bisogno per vivere, ma che è pure origine di terribili contraddizioni. Tutt’altro che sadico, Reger è al contrario un uomo crocifisso dalla realtà, la cui essenza continuamente gli sfugge e sulla quale tuttavia egli non può smettere di investigare.
Ecco, mi pare che lo sfondo su cui si colloca il lavoro di Dugo sia questo stesso: anche per l’artista Goriziano la realtà, quella psichica come quella fisica, non è semplicemente come appare, ma appunto qui è il dramma, che noi non possediamo, per avvicinarci ad essa, altro che l’apparenza: la quale allora non potrà che essere investigata in tutte le sue sfaccettature, nei suoi passaggi più minuti poiché, per usare una terminologia aristotelica, è solo attraverso l’accidente che si dà, apprensione della sostanza. Qui è la croce e qui è la delizia: la delizia di rimisurare attraverso mani ed occhi la capacità evocativa di un segno, di un’ombreggiatura, o la musica di un rosa, il peso di un grigio, la trasparenza diamantina di un celeste, e infine l’astanza nitida di una veduta che, attraverso questa decantata precisione, diventa una visione.
E qui è la croce, perché l’illusione di aver toccato un culmine fa presto a sfaldarsi, non solo sul piano della convinzione concettuale, chje è il meno, ma proprio su quello della sensazione che diremo esistenziale: l’arte, come ogni altro fulcro della vita, è sottoposta a trasalimenti, disequilibri, infine a cedimenti cocentissimi, e quel che ci appariva certo ieri, già oggi può essere diventato maschera di se stesso.
Così il lavoro di Dugo è continuamente necessitato – e questo ne spiega, anche in termini di tenuta psicologica, l’altezza – e necessariamente ciclico, poiché un tema non può sopportare di essere abbandonato se prima non se ne siano svolte tutte le possibilità. Ovviamente esso, una volta esaurito, deve lasciar spazio ad un altro racconto, che però, come dimostra il trentennale itinerario dell’artista, si tiene al precedente, e in qualche modo apre al successivo, e così si può affermare, molto in sintesi, che egli è passato da una figurazione espressiva, espansa, ad una figurazione implosiva, ad una presenza che vuol dire tutto quello che può dire con il suo solo esserci, essendo allora obbligata, proprio per questo, a definirsi con estrema nettezza.
Dirò allora che – se mi si concede una piccola escursione soggettiva – di un bilancio è comunque possibile parlare, ed è il bilancio che io stesso – non per esibizione, spero, ma come lettore dell’opera di Dugo a partire dagli inizi – sono spinto a fare sul mio rapporto con il suo lavoro.
Un bilancio che vale la pena riferire perché può assumere significato più generale, cioè può essere visto come una delle possibili declinazione del rapporto tra spettatore e artista, e trovare allora risonanza anche in altre esperienze.
A me pare che l’importanza – artistica, e perciò più generalmente culturale – di Dugo stia soprattutto nella decisione, nella nettezza con cui egli ha saputo sempre guardare in faccia la condizione degli uomini, che condizione contraddittoria in radice, perché vuole la vita e la morte contemporaneamente e perché in questo scontro brucia tutte le sue possibilità di bene e di male.
Dugo, come pochissimi altri artisti, ci costringe a non evadere, a meditare continuamente su questo.
E’ una meditazione che, scoprendo l’interrogazione radicale dell’esistere, non lascia spazio a dogmatismi, e dunque si oppone, sempre, e in ogni modo, e al limite delle sue possibilità, all’esclusione dell’altro, alla sua negazione. Non è cosa da poco.