Giancarlo Pauletto

L'allegoria e il quadro

Che l’intenzione essenziale dell’arte di Franco Dugo sia un’intenzione “allegorica” – cioè, detto rapidamente, che le sue figure alludano sempre ad altro rispetto alla loro semplice apparenza – era chiaramente visibile fin da una delle sue primissime mostre, quella di San Pier d’Isonzo del 1974, nella quale egli presentava grandi ritratti a china che appartenevano, forse più che al tema della denuncia sociale, a quello della meditazione sul sentimento della morte.
Si rendevano cioè evidenti, fin d’allora, alcuni elementi costanti della sua arte: il simbolismo di fondo, che lo apparentava a tutta un’amplissima area dell’arte mitteleuropea, da Klinger a Bolaffio, tanto per fare due nomi che sono quasi due estremi geografici; un elemento drammatico che appare consustanziale al suo “apprendimento” della vita, cioè al suo sentire e pensare l’esistenza come movimento di passioni faticosamente tenute a freno da un risentito senso morale; la necessità, infine, e proprio per dare chiarezza al nucleo intensamente soggettivo della sua ricerca, di una definizione tecnica nettissima, di un possesso dei mezzi della rappresentazione che potesse seguire fino in fondo ogni intenzione figurativa.
Se infatti la figura è lo strumento di un racconto simbolico, del simbolo dovrà assumere la nitidezza di confini, un’ identità non revocabile in dubbio pena la caduta di ogni discorso intelligibile.
Questa necessità sostiene tutto l’ormai quarantennale percorso di Dugo, ed è perfettamente riconoscibile anche nella mostra presente, poiché le tre “stazioni” di cui si parla nel titolo stanno in una sequenza, temporale e logica, che è disposta esattamente sull’asse portante del suo itinerario e che può essere vista – oggi, con lo sguardo retrospettivo che la distanza permette – come una specie di sintesi di tutto il suo lavoro.
Il quale, partendo da un massimo di intenzione espressiva che si concretizzava anche nell’accumulo figurativo di tanti lucenti particolari – e qui, senza troppo dilungarsi, si rivedano per esempio i due notissimi cicli delle Identificazioni e del Ratto della Gioconda – va via via prosciugandosi e concentrandosi sull’astanza della figura, sulla capacità che essa possiede, con la sua sola presenza, di dire tutto quello che all’artista preme, senza bisogno di particolari narrativi.
Oltre i tanti esempi che si potrebbero fare, si pensi solo ai ritratti in puntasecca di Kafka e Pasolini, risolti puramente nel volto e negli occhi, e si comprenderà quel che intendo.
In questo percorso, allora, dove si collocano le tre stazioni che costituiscono la mostra odierna?
Se escludiamo il grande pastello dedicato a Primo Carnera nel 1983, ripreso poi nel 1989, quando Dugo comincia ad impegnarsi nella lunga serie dei boxeurs, vediamo che la prima di queste stazioni è quella dedicata al tema della Medusa, tema fortemente simbolico che si apparenta da un lato a quello immediatamente precedente, ma poi anche contemporaneo, del fuggiasco e, in un tempo subito successivo, a quello della Danza di Salomè, altro ciclo ben conosciuto, mentre invece i grandi pastelli della Medusa, e i relativi bozzetti, sono del tutto inediti. Si può anche utilmente precisare, tra l’altro, che il Carnera si lega, per la sua impostazione iconica, più ai precedenti cicli della Gioconda e delle Identificazioni che non alla abituale secchezza dei Boxeurs, la quale culmina in quell’ampia serie di ritratti a pieno volto, nei quali ogni risultato estetico è affidato alla pura e semplice presenza fisionomica.
Dunque i pastelli della Medusa si trovano esattamente in un momento di passaggio: tra la struttura ancora narrante dei cicli precedenti e la successiva iconografia dei pugili, la quale -assieme a tutta una serie di grandi ritratti di cui i già citati Kafka e Pasolini sono solo uno specimen - testimonia precisamente quella concentrazione sull’astanza della figura, di cui abbiamo già parlato, e che sarà d’ora in avanti il modo essenziale in cui Dugo si esprime.
Alcune osservazioni varranno a confermare ciò che si va dicendo, anzitutto in rapporto al tema prescelto, che ha una consistenza storico-culturale di forte significato.
E’ chiaro infatti che, se un autore contemporaneo sceglie di rappresentare la testa di Medusa, lo fa perché questa figura mitologica può essere ancora, e proprio attraverso la tradizione artistica che la riguarda – pensiamo a Caravaggio, a Bernini -, portatrice di un senso che ha cittadinanza, e naturalmente una cittadinanza psicologica, come segnale di una situazione esistenziale che riguarda anzitutto l’artista, ma che può assumere anche valori più generali.
Medusa è la più celebre delle Gorgoni, i mostri marini che avevano testa di donna anguicrinita, e il cui sguardo era così terrificante da trasformare in pietra chi avesse osato affrontarlo.
Anche la Medusa di Dugo ha capelli che si divincolano come serpenti, e mostra il seno in un gesto d’invito, tuttavia contraddetto violentemente da un’espressione urlante che dice nello stesso tempo pericolo e disperazione.
Essa sembra esibire una volontà d’amore, e nello stesso istante una minaccia di morte, quasi che l’amore non possa che essere mortale. Ciò che rende credibile la sua dispiegata drammaticità è una precisata definizione tecnica, che fa delle opere quasi la descrizione di un sogno allucinato, o magari di un insostenibile incubo.
Medusa è poi in alcuni casi commentata - si potrebbe dire - da una figura maschile fuggente, un fuggitivo che, tematizzato anche in opere in cui è il solo protagonista, costituisce nelle altre un polo dialettico, è colui che si sottrae, o vorrebbe sottrarsi, al tragico incantamento di cui la figura femminile è portatrice.
Il senso simbolico delle immagini di questo ciclo è del tutto evidente, né si può sfuggire alla domanda sul suo significato: cos’è Medusa, di che tema o problema soggettivo, ma poi anche generalmente umano, si fa portatrice?
Essa potrebbe significare anzitutto quel che è nell’opera, una donna che chiede, che desidera, e che nel suo desiderio di un possesso assoluto spaventa e respinge, rende di pietra, nega la sua stessa apertura.
Medusa e Fuggiasco sarebbero insomma gli eterni duellanti dell’amore, immagini ipostatizzate di una necessità umana che è assolutamente fondante del rapporto sociale, ma che assai spesso si risolve in uno scontro drammatico, disperante nei suoi torti e nelle sue ragioni mai intersoggettivamente del tutto definibili e condivisibili.
E’ un significato generale che può tuttavia svelare un risvolto personale, le immagini potrebbero anche essere un’allegoria del rapporto tra l’arte e l’artista, tra la necessità di perfezione che è intrinseca alla prima - la quale dunque non può essere che un’amante assoluta e totalizzante - e il secondo, che fugge o vorrebbe fuggire perché conosce l’enorme fatica, il vero dolore che quel rapporto produce: è, insomma, il passi da me questo calice che ogni artista vitalmente impegnato nella sua ricerca viene tentato - ogni tanto, o spesso, o definitivamente, Van Gogh se sapeva qualcosa - di pronunciare, specie se nel rapporto sociale il suo sforzo venga non riconosciuto, negletto, lasciato in disparte.
E tanto più questo senso è attendibile, se consideriamo per un momento il successivo ciclo dedicato alla Danza di Salomè, dove l’esibizione della grazia ha come pegno una testa, la testa dell’artista medesimo.
Ma poi, ed è inevitabile, l’allegoria può anche riferirsi semplicemente alla vita, al suo fascino e al suo connaturato dolore, al suo richiamo necessitante che è sempre operato, tuttavia, in presenza della morte.
Ci pare, in conclusione, che si possa dire questo del ciclo di Medusa – assieme al successivo La danza di Salomè- : che essi sono le ultime cose apertamente allegoriche di Dugo.
Dopo, con i ritratti e con i pugili, l’allegoria, il simbolo, permangono, ma fanno direttamente corpo con l’immagine medesima, si stabiliscono, esattamente, nell’andatura non realistica, non naturalistica delle figure, nella loro diretta assunzione ad emblemi di una virtù, di una capacità, di una condizione.
Che, nel caso dei boxeurs, si esprime perfettamente nella grande tela del combattimento, dove le due figure che si affrontano contro un apertissimo cielo sembrano riassumere tutta la sostanza umana, sentimentale ed etica del ciclo: esse sono figure di uomini nella vita, e di uomini al meglio della vita. Perché il meglio della vita si dà quando la necessaria aggressività che spinge alla sopravvivenza è incardinata in regole certe, le quali regole permettono al vero “valore” di manifestarsi, proponendosi , allora e soltanto allora, come virtù.
La noble art, appunto.
Si comprende come non sia necessario che l’artista pensi a simili cose, mentre fa l’opera: queste cose però sono dentro l’opera e risaltano ad un minimo di riflessione: perché i gesti sono ampi, misurati; perché il cielo è vasto, è un orizzonte degno, epico; perché le figure dei combattenti sono grandi, imponenti, portatrici di un’intrinseca nobiltà; perché, infine, esse sono chiaramente dei simboli, intendono incarnare un’idea di umanità, ed è soprattutto attraverso l’uso di un colore parco, giocato su poche variazioni di tono, che Dugo stabilisce questa sensazione nello spettatore: un colore che ben poco si rifà alla natura, che è mentale, che semmai prende spunto dalle tinte virate o modificate di certe antiche fotografie.
Queste annotazioni sul colore valgono naturalmente per tutta la serie, e in particolare per la sequenza dei volti in primo piano che, senza nulla togliere ad altre realizzazioni, è veramente una sequenza formidabile, incardinata su una verità fisionomica la quale, rispettata fino in fondo, assume tuttavia un’aura mitica, epica, fa di questa galleria di personaggi la manifestazione di un’umanità piena, positiva, si potrebbe dire consapevole di un compito accettato in aperta lealtà.
Non importa, naturalmente, che queste evidenti idealizzazioni possano venir messe in dubbio dalla realtà: perché in esse si esprime un pensiero, una sorta di speranza, quella di una vera assunzione d’umanità da parte dell’uomo medesimo: e i pugili, nella loro popolaresca vitalità, nella verità un po’ favolosa della loro presenza, esprimono questo tanto bene quanto fanno, in diversa accezione, i grandi ritratti di Rembrandt, Joyce, Svevo, Picasso, Rilke e altri, non per nulla datati negli stessi anni attorno al 1990.
La terza stazione, che Dugo ha intitolato Prima del bosco - e che è la sua ultima realizzazione -, si apparenta, specie attraverso il grande Trittico, ad un’altra bellissima serie precedente, quella intitolata L’uomo dei castagni, dove un’ attempata figura maschile, vista generalmente di spalle, si staglia contro l’ampia e densa mole di un grande bosco.
Anche in quel caso il senso generale delle opere non si esauriva nel semplice rispecchiamento del rapporto tra figura e natura, assumeva invece il suo fascino precisamente dalla polarità che si imponeva, nelle opere, tra la vastità e la forza della vita vegetale e, al confronto, il peso minimo di una vita umana che si sa assai più precaria e temporalmente determinata.
In Prima del bosco l’allegoria viene rafforzata, e declinata in un senso più radicale che si legge già nel titolo prescelto.
Prima del bosco, infatti, non è un’indicazione topografica, non intende riferirsi al fatto che la figura umana è rappresentata ai margini, nello spazio precedente il confine del bosco.
Se non mi sbaglio di grosso, essa significa tutt’altro, e questo tutt’altro si legge nel modo diverso che Dugo ha di affrontare - in questa serie, e anche tecnicamente - il tema del bosco e quello dell’uomo.
Se nel Trittico un tono di realtà, pur virato verso l’emblema dalla stessa sequenza temporale che in esso si rappresenta, è ancora avvertibile, nelle altre prove questo tono scompare via via ed emerge sempre più la radicalizzazione allegorica.
La figura non ha qui caratteristiche in qualche modo riconoscibili, come accadeva ne L’uomo dei castagni. E’ certamente una figura concreta, cézanniana si potrebbe dire nella sua solidità, ma non gli si può attribuire giovinezza, o vecchiaia, né i suoi vestiti possono in qualche modo identificarlo da un punto di vista sociologico: un comunissimo berretto a frontino, una camicia, un paio di pantaloni da giorno qualunque. Potrebbe essere chiunque, è in effetti un uomo “qualunque”.
Che si trova prima del bosco: ma il bosco?
Ne L’uomo dei castagni il bosco denso, anche cupo, si personificava tuttavia decisamente in grandi alberi, possenti e maestosi, o almeno in un grande albero, ciò che manteneva all’immagine, nonostante tutto, una sensazione ancora gravida di realtà.
Qui invece il bosco si dilata e sfuma sempre di più, tende a diventare una semplice banda densa di ombra, in cui non è importante che si distinguano perfettamente tronchi e rami.
E’ un bosco sentito sempre di più come regno incognito, buio e fine.
L’uomo dei castagni insomma è diventato l’uomo che sta davanti alla proria morte, e l’entrata nel bosco è l’entrata in uno sconosciuto altrove tuttavia capace di assorbire in sé ogni realtà, compresa la realtà della vita umana.
Per parlare di questa fine, di questa sorta di contemplazione della morte, Dugo non poteva servirsi dell’abituale acribia descrittiva, che dispone confini, che limita precisamente le figure nei loro spazi.
Perciò ha lasciato la matita e il pennello, e ha preso in mano la spatola, lavorando in modo da creare un’atmosfera cromatica che evitasse ogni possibile caduta nel particolare, nel racconto. Perché in questa serie – come, e ancor più che in quella dei ritratti o dei pugili - il significato è dentro l’immagine, fa tutt’uno con essa.
Dugo, insomma, non si smentisce: rimane un creatore di allegorie, ma le allegorie che prima erano nel racconto, e poi nel quadro, ora sono, definitivamente, il quadro, coincidono cioè, senza scarti, con tutta la topografia dell’opera.
(Allegorie, tre stazioni per un percorso d'arte, 2009)