Guido Giuffré

Luci di nuvole. Pastelli di Franco Dugo

Sotto il cerchio delle fronde – appena ovalizzato, non sai se per scelta o imperizia d’improbabile potatore – il buio si raccoglie in un cuneo appuntito. L’albero (Un querciolo? Un castagno?) si disegna preciso nella luce bassa e fredda, e dal suo contorno appena frastagliato il Silenzio della notte spande nella piana. A tutta prima diresti innevata la distesa che come lago immobile giunge alla sponda remota dell’orizzonte – o sarà piuttosto brina gelata, di cui il puntinio traluce nel vasto triangolo d’ombra. Ed è lì, nell’ombra, che quel silenzio si anima; nell’ombra che dai cespugli impenetrabili, dall’intravisto muro della casa, cupo, rintanato, trapassa nel risonante cobalto del cielo.
Non sarà mai sondata abbastanza codesta fusione dei sensi nel mistero dell’immagine. Tu vedi il silenzio; la solitudine ti assale e ti rapisce in quello spazio – oltre quello spazio – ma senza uscire da esso. Navighi assorto dove i grigi bluastri si venano di bruni e di terre, dove nel bianco si alternano sfociamenti azzurrati, quasi riverbero della volta celeste. Nel silenzio, nelle ottenebrate malie o nel dilagare dirompente della luce, sono esse, quelle sottili variazioni di tono o quelle profondità, a farsi parola – clamorosa e muta. E’ il proprio della pittura. La vista, l’udito: i sensi sono diversi, ma l’arte concerne lo spirito, e nello spirito il diverso trova unità.
Se anche per Dugo l’ombra sulla terra o nel cielo si fa spartito per la gamma ampia delle variazioni, proprio nel suo articolato contesto non di rado è la luminosità a modularsi o ad irrompere. Dire che lo Squarcio di luce ricorda uno squillo di tromba è più che analogia: non i fiati del XVIII secolo ma quelli dei romantici, di Beethoven, o di Malher, suo epigono sfatto e struggente. Il suono del corno che si leva sul tessuto degli archi, o l’acuto dell’oboe, dell’ottavino, sono parola, come parola è il bianco che scatta improvviso sul velluto dei grigi – e nella perfezione della resa poetica non rileva lo strumento da cui essa nasce: sia ottone o gessetto. Nello Squarcio di luce il basso continuo della striscia di terra suggerisce elementi di racconto – e questo è tipico della irrefrenabile vocazione narrativa di Dugo. Anche i ritratti, quando nel suo lavoro fiorivano numerosi (ritratti di famiglia, di persone care, di pugili, per i quali la simpatia dell’artista si venava di autobiografismo), erano sintesi taglienti di sottaciuti romanzi: volti proletari che concentravano speranze illusioni o rivolta, e come in un libro aperto leggevi storie puntuali e senza fine. Il paesaggio, che da una decina d’anni ha determinato una svolta in tutto il lavoro di Dugo, scioglie la lapidarietà in una partecipazione più effusa – soprattutto nel pastello, a Dugo particolarmente congeniale. Il passaggio dalla luce all’obra è vicenda interiore non d’atmosfera: l’ombra aduna ancora gli impenetrabili misteri notturni che la luce schiarisce ma non chiarisce; buio e chiarore rispondono all’addensarsi o al diradare delle nuvole, ma il loro carico di pensieri non viene da esse. Basta poco a Dugo per conferire all’immagine tumultuosa densità emotiva – e poco non è la pianura ancora invasa dall’oscurità, le indecifrate presenze all’orizzonte, l’albero solitario sul filo di luce arrossata dalla terra argillosa. Ma il vero protagonista è il cielo. La tradizione dei cieli è ampia e nel lavoro di scavo sugli elementi del paesaggio Dugo ha proceduto sulla scorta di una vasta cultura. Egli ben conosce gli acquerellisti inglesi, Girtin, Bonington, soprattutto Constable, che proprio al cielo dedicò studi appassionati e precorritori. Prima degli inglesi, anche se in spirito diverso, gli olandesi – Ruisdael anzitutto – del cielo avevano sondato la ricchezza, la mobilità, la sontuosità. Favoriti dalle vaste pianure dove la varietà del paesaggio viene dagli infiniti mutevoli giochi delle nuvole, i pittori del XVII secolo realizzarono nei Paesi Bassi una stagione che si sarebbe rinnovata due secoli più tardi, prima in Inghilterra, poi in Francia – sempre nel ricordo più o meno esplicito di quegli alti trascorsi.
Dugo non ne è estraneo. Poco prima del temporale (immagine indagata da almeno un lustro) è uno dei suoi cieli più belli. Ma inopinatamente le nuvole turgide di tempesta nel preludio allo scatenarsi degli elementilasciano affiorare un vago ricordo dell’intrigante, inquietante Linda maestra – uno dei più pungenti “capricci” goyeschi. Nella nuvola di forma stregonesca l’assonanza, fuori da ogni programma intenzionale, nasce dalla notorietà della celebre incisione e di tutta l’opera dello spagnolo, ma – per il costante fondo tragico di Goya prima che per la sua statura – l’idea, a Dugo, non dovrebbe dispiacere. Il temperamento del pittore di Gorizia oggi non è, a differenza di un tempo, dichiaratamente drammatico, ma anche i fogli in apparenza più abbandonati all’empito della natura non dimettono un alone di misteriosa attesa, un allarme, una sospensione dell’animo. A vederle riprodotte le immagini sembrano di dimensioni maggiori che nel vero; in realtà lo spazio è tutto interno - ed è sconfinato. Il vago, involontario antropomorfismo di Poco prima del temporale non turba la lettura; non è, in altri termini, retaggio delle tensioni, e delle volute ambiguità che vent’anni or sono tenevano l’autore in area latamente surreale. Anzi proprio questo tempo di denso di paesaggi sembra avere definitivamente torncato i residui simbolici che in qualche misura resistevano ancora nei ritratti e nei “d’après”. L’esordio di Dugo era stato segnato da una visionarietà che storicamente, esemplificando, si direbbe conduree da Bosch a Velickovic: in una matrice dichiaratamente espressionista, cupa e tragica. Ma un cambiamento significativo avveniva nelle figure soprattutto disegnate ed incise negli anni ottanta e nella prima metà di questi novanta. E tra le prime, quelle disegnate, e le altre, incise, una sottile differenza evidenziava di volta in volta caratteristiche variamente conviventi: di qua una malinconia, un velo di patetismo che trasformava la figura in un “caro estinto” affettuosamente rivisitato, nel tacito riferimento al dagherrotipo e all’aura retrospettiva che lo circonda; di là una perentorietà, una irrevocabilità tedesca – si direbbe tragica di per sé.
Del patetismo Dugo non si è mai compiaciuto. La venatura che filtrava da quelle immagini era frutto di una scelta poetica e linguistica: nei personaggi, nel loro atteggiamento, nell’esecuzione puntigliosamente e insieme magicamente analitica. Quest’ultima considerazione vale anche quando l’artista passa dalle figure al paesaggio. La serie del cipresso eseguita in massima parte nel ’93, sia disegnata che incisa, mostra proprio l’inattesa magia dell’analisi: non una minuziosa descrizione fine a se stessa ma l’individuazione puntuale della verità e della vitalità di ogni cosa, del suo modo di essere e di durare. Non c’è aura simbolica, nel cipresso; soltanto, oggettive, senza tempo, le sue braccia denudate, l’occhio cavo dei nodi sulla pelle dura, l’ispida ombra delle chiome avare.
C’è un pastello del ’97, Grande albero, che riporta alla memoria certi pittori di Barbizon e soprattutto il loro caposcuola, Théodore Rousseau, proprio per il modo di affrontare il cosiddetto “paysage-portrait” – come lo aveva chiamato Pierre Henri de Valenciennes all’inizio del secolo scorso. A differenza di tanti suoi colleghi Rousseau non si era recato in Olanda, ma, incisore egli stesso, possedeva una nutrita raccolta di incisioni, non soltanto di Durer o di Claude ma di olandesi, a muovere ancora una volta da Ruisdael. Più degli inglesi – segnatamente di Constable, specie dopo la sua presenza al Salon del 1824 – erano appunto gli olandesi del secolo d’oro il grande modello della neonata voga del paesaggio; ma pure avendoli vivi nel loro retroterra culturale, i pittori di Barbizon, e Rousseau più di altri, erano anzitutto romantici. Nelle grandi querce Rousseau sondava ed esaltava il cuore della natura, e – nel vago panteismo di tutta di tutta quell’area culturale – in quello della natura batteva il suo stesso cuore. Da qui una qualche assonanza del Grande albero di Dugo con la concezione della natura che era di quei pittori francesi.
La grande pianta che stagliandosi sul cielo interseca e misura l’orizzonte, solitaria, imponente, è soggetto tipicamente romantico: come il viandante, qui adombrato nella strada che si allontana deserta. Viandante era il monaco di Friedrich, di poco più giovane dell’altro – “amante dell’arte” – cui nel 1796 Wackenroder aveva affidato le sue tesi premonitrici. E monaco e viandante è il grande albero di Dugo, più francese invero che tedesco. Ma la nuvola che invade il cielo in Poco prima del temporale ricorda un altro maestro francese appena a monte dei pittori di Barbizone e molto stimato da essi, Georges Michel, alle cui nuvole nere involontariamente riporta anche una tarda tela (Verso Oriente invisibile e leggero) di Guccione, pittore molto amato da Dugo. Ma Michel interpretava e riviveva la cultura olandese, e sopra tutti Rembrandt (“un peintre – egli diceva – comme on n’en verra plus”), mentre i “barbizonniers” romantici con tangenze realiste, si apprestavano alla soglia dell’impressionismo, e taluno di essi, come Daubigny, già la sfiorava.
Nel 1993 dunque l’artista eseguiva la mirabile serie del cipresso. Avveniva allora in lui una sorta di scoperta del peaesaggio, e non si comprenderebbe tutto il lavoro seguente se non si cogliesse la frenetica, insaziata ricerca compiuta in quell’anno. Egli toccava tutti i tasti con cui avrebbe composto le sue sinfonie, allineava sulla tavolozza i colori, accordava, intonava, e per un paio d’anni venne preparando la maturità di oggi, in un tempo che per altri è di chiusure e bilanci. Le nuvole di tramonto o di temporale mostravano le straripanti potenzialità che al di là delle suggestioni di allora avrebbero spiegato in seguito calibri più sottili; le luci e le ombre si contrastavano levando alte quelle ragioni che più tardi sarebbero state, come sono, di quintessenziali finezze, di echi infiniti. Non mancavano i dipinti, ma lo strumento più usato era il pastello, nel quale anche Dugo sarebbe diventato un maestro. E’ singolare la fioritura del pastello negli ultimi decenni. In Veneto numerosi artisti se ne servono per cogliere brume e nuvolaglie ristagnanti nelle pieghe delle colline o adagiate lente sulle pianure; Dugo è nato in Slovenia e vive in Friuli, suo padre, come dice il volto spigoloso tante volte ritratto, era siciliano, - e dopo i vermigli infuocati, i cobalti e i grigi che in quei primi anni lottavano impetuosamente, le successive sottigliezze presero a filtrare luci montane e fredde, consapevoli di una non lontana mediterraneità ma ben distinte da essa.
Se non la riconoscibilità topografica, certo l’atmosfera, l’ora, la luce, giocano qui un ruolo che è nello stesso tempo marginale e centrale. E’ il grande fascino di queste immagini: la totale trasfigurazione del paesaggio nelle fome dell’arte, il loro vivere appunto in quanto forma (qui anzitutto gli imponderabili trapassi di colore) – e insieme la piena fedeltà all’emozione nata sul motivo, “al respiro del mondo”, come diceva Cézanne. Per alcuni versi, soprattutto per le immagini di orizzonti bassi ed ampi cieli, antecedente storico sembrano essere i già ricordati paesaggisti olandesi del XVII secolo: Jacob van Ruisdael, Meindert Hobbema, Willem van de Velde, Jan de Cappelle – più di Rembrandt, troppo personale ed irripetibile anche nei paesaggi, più di quell’unicum inaccostabile che è la Veduta di Delft di Vermeer. In quel secolo che per complesse ragioni sociali, politiche ed economiche vide il tema del paesaggio diffondersi largamente, gli artisti olandesi, nonostante che nel loro paese terra ed acqua convivessero e si intersecassero, finirono con lo specializzarsi rispettivamente in pittori di marine e pittori di campagne. Ma gli uni e gli altri – in un tempo che vide affermarsi anche il ritratto, la pittura di genere, le nature morte rimaste modello per secoli – non potevano prescindere da un’analisi oggi improponibile; proprio la vastità dei cieli offriva allora le maggiori possibilità, se non di sintesi, certo di sentimento unificante: e fu chiave costante almeno da van Goyen a Weissenbruch.
Del riferimento agli olandesi, per un pittore che tanto privilegia la rappresentazione dei cieli, non si può fare a meno – ma è riferimento, come ben s’intende, da non sopravvalutare. Al paragone, una differenza fondamentale concerne – non fosse altro – il confluire nella cultura di Dugo dei tre secoli che seguirono quella grande stagione, e l’essere egli irrinunciabilmente post-romantico. Ma un’ultima nota su quel riferimento andrebbe ad una delle più efficaci soluzioni cromatiche dell’artista Goriziano. Il tono arancio, signore dei tramonti e dei loro tanti modi di essere, e di significare, è ben noto ai pittori di paesaggio, per i quali anzi non di rado è chiave di volta. Nel Castello al crepuscolo del Louvre Rembrandt lo adombrava rinnovando tra le nuvole grigie i toni dei vecchi muri, dei riverberi rosati che non sai quale incantesimo diffonde su tutta la campagna. Ma la pensosità di Rembrandt e la complessità della sua visione, in questo e nei non troppi altri suoi paesaggi dipinti, non lasciava molto spazio alle prerogative del cielo. Numerosi altri artisti, del cielo. Numerosi altri artisti, del cielo facevano invece il protagonista, e fra i tanti, il ricordato van de Velde, che nel Mare tranquillo del Mauritshuis dell’Aja subordina al cielo la distesa piatta del mare ed i numerosi navigli – ma mare e cielo unifica proprio in quel caldo tono d’incarnato nel rosato, fugace turbamento. Il risultato è impeccabile: in questo ed in innumerevoli altri tramonti, non soltanto d’Olanda e non soltanto di allora. Ma su tutti c’è un luogo privilegiato per il trionfo e la sublimazione di quei toni dorati, ed è la ricordata Veduta di Delft di Vermeer, al cui confronto le pure straordinarie vedute di Cataletto, un secoo più tardi, sembrano farsi schematiche. Se un dato resta dominante nella memoria di quel capolavoro ( sui mille altri dati che avvincono) è il riverbero cocente che indorando le nuvole alte sulla fascia in ombra delle case si ripercuote tenero fino all’orizzonte.
Dugo ha scrutato a lungo le variazioni di luce del tramonto; a lungo ha ripensato quante marine e paesaggi, nella storia della pittura, di queele luci hanno fatto tesoro, ed è difficile dire se fra i tanti esempi lo abbia stregato proprio la più celebre delle Vedute. Difficile dirlo ed inutile chiederlo. Resta il fatto che in numerose sue immagini quelle calde ocre aranciate – stese e variate con infinita sapienza – sono insieme canto del vespero ed incandescente spazio dell’anima. Così ad esempio in Orizzonte; le poche linee tracciate sulla striscia sottile della terra diventano labile traccia di una prospettiva che misura l’enorme ampiezza del cielo, e fra cielo e terra le modulazioni del blu sono il la per l’ineffabile gamma dei viola, dei cerulei, dei grigi-cenere che si sfanno nell’immensità.
Così ancora in Nuvola sull’orizzonte. Il noto Il canto della sera di Guccione – prototipo moderno di un taglio compositivo plurisecolare – consente di individuare differenze di poetica che mettono meglio a fuoco la visione di Dugo. Guccione in quel pastello del 1995 (come – con poche eccezioni – quasi sempre nell’ampia gamma dei suoi paesaggi) non adombra nuvole nell’intatta volta del cielo, anzi la chiave dell’immagine è proprio nella perfetta, implacabile, immutabile campitura che movendo dal perla ceruleo all’orizzonte s’inazzurra verso la sommità. Anche Guccione, qui come Dugo, modula le ombre e le luci sulla vasta pianura, col crescere della luminosità fino alla macchia di sole a sinistra, in senso inverso alla luminosità del cielo che si accentua verso destra fino a farsi incandescente dentro il tronco mozzo del carrubo. Ma nel siciliano quelle modulazioni piuttosto che episodio atmosferico sono modo di essere dell’eterno, inalterabilità di una perfezione al cui cospetto l’uomo s’arresta sgomento. Dugo al confronto accentua le corde romantiche; i giochi delle sue nuvole, pure maestosi alteri ed irraggiungibili, consentono una partecipazione più coinvolgente, e la piana, vasta nello spazio ridotto del foglio, il sospetto di mare, dove, toccandosi la terra ed il cielo, la luce trapassa dall’uno all’altra – sono, sia pure all’acme della tensione dell’animo, più frequentabili. Anche Guccione è stato chiamato, e non a torto, romantico; ma Dugo lo è in altro senso, che nel pittore di Scicli lascia intravedere, al paragone, l’eco di un classicismo poussiniano. Il romanticismo di Dugo è, sia pure con misura, più appassionato, e con i pittori di Barbizon ricorda (cum grano salis) il nostro Fontanesi, che tra gli italiani era forse il più vicino a quei francesi. Ed è singolare che in questo volgere di secolo si tornino a frequentare termini come romanticismo e si citino pittori come Fontanesi o i “barbizonniers”: è singolare ma non è casuale, se è vero che i cicli storici, senza ripetersi, si ripropongono rinnovati.
Che cosa più romantico della notte stellata? Dugo non sceglie le argentate malie della casta diva belliniana, lo stupore leopardiano metafisico e panico, la rutilante notte stellata vangoghiana o quella, stranamente rutilante anch’essa, di Millet. Millet aveva ricordato all’amico Rousseau “la petite étoile brillant dans son nuage, comme nous l’avons vue un soir après le soleil couchant…”; ma in La nuit étoilee della Yale University di New Haven il caleidoscopio luminoso appare poco rasserenante, ed anzi, così come il noto Le printemps del Museo d’Orsay, sottende nell’eco simbolica un’inopinata esaltazione. Anche Guccione non è stato avaro di notturni, profondissimi e, talora bui, che il puntinio delle stelle commenta ma non rischiara; Dugo preferisce piuttosto quel momento tra lusco e brusco quando sull’ultimo chiarore reso più toccante dai pallidi veli appare lucente La prima stella. Ancora una volta dalla poetica dell’artista siciliano lo distingue proprio quello sfolgorio che lo tiene avvinto alla vita palpitante del suo soggetto – e nel brillio dell’astro vibrano insieme il mondo e le nostre quotidiane passioni. Non c’è sbavatura sentimentale o retorica in questi notturni; la vivida, tangibile luce della stella segna insieme un’insormontabile distanza – e la sua culla di cobalto, le nuvole possenti e trepide, l’albero, il sentiero, sono i termini di un racconto non sai se più intenso o più sobrio.
Torna la verità delle cose. Se un fenomeno può considerarsi peculiare in questa fine secolo (così come all’inizio peculiari furono le avanguardie) è appunto il ritorno – o il tentativo di ritrovare – una sostanza, una verità dell’immagine, o, si direbbe, del mondo fatto immagine, che dopo lo straordinario primo periodo di predominio linguistico, trasformando il mezzo in fine, aveva finito con l’emarginare. Dipende naturalmente dal senso della verità nutrito dai singoli artisti. Il mondo non è la sua maggiore o minore verosimiglianza, o il civettare con questo o quel momento della storia dell’arte (dal Manierismo alla Scuola romana), o il trome-l’oeil ultrafotografico. Benedetto, al confronto, e non soltanto al confronto, il ritorno al mestiere del tempo di Valori Plastici. Le immagini di Dugo dicono che egli non muove dall’apparenza del paesaggio o dalla sua propria abilità nel tradurla sul foglio, ma da un’emozione che segue tutto il suo vivere, e che in quel paesaggio s’incarna. Il suo percorso dice che all’inizio egli lasciava prevalere l’elemento intenzionale – al quale piegava talenti innati; la sua forza di penetrazione è stata sempre accompagnata da una veemenza ora latente ora deflagrante, divenuta quindi scavo psicologico acuto, tale da racchiudere un’ampia diramazione narrativa. Ma il paesaggio, protagonista nell’ultimo decennio, rivela un’intensità contemplativa inedita, che nel rasentare a volte l’estasi non diminuisce la forza, nell’esaltare la pregnanza delle cose – l’albero, la nuvola, la cava, il profilo tagliente della collina – non esclude una sottile eco simbolica: quasi l’immagine faticasse a trattenere in sé l’accumulo di vita che essa contiene.
Il raggio della Luce sulla cava sfiora un risvolto mistico e sembra adombrare contenuti non detti, ma ancora una volta la tensione formale, l’inarrivabile trapassare dei toni, trasforma il rischio sentimentale in ineffabile, flagrante pienezza. Talora, come appunto nella Luce sulla cava, l’icasticità non riduce ma concentra il racconto – che spesso è invece più disteso. Così nelle Nuvole rosa, che non rifiutano una lettura velatamente romantico-simbolica. Ancora una volta c’è un vago riferimento friedrichiano nella valle collinosa che separa e conduce al tumulto tuttavia pacificante delle nuvole. Personaggi sono gli alberi del primo piano (rivolti, in quell’ottica, verso la valle, le brume, l’orizzonte), ed il palo sulla destra, che funge da elemento narrativo e insieme da diapason spaziale. Ma nulla di più. Prevale invece quel tenero fuoco di tramonto, non approdo remoto ma presenza calda, confortante ed attualissima – com’è tutta l’ultima superba stagione di Franco Dugo.
(Franco Dugo, Rex, Pordenone, 1999)