Amedeo Giacomini

Appunti per Franco Dugo

Prima di accingermi a cercar di capire le recenti opere di Franco Dugo, ho sentito il bisogno di riguardarmi a lungo la sua produzione grafica, a partire dagli inizi. L’impressione è stata vivissima: Franco è un grande incisore, uno tra i migliori della folta schiera che ci sta intorno. Ha cominciato da surrealista, o meglio da realista le cui figure d’uomini e donne perversamente affogano nei loro incubi di malati dello spirito e dei tempi, per farsi – maturità crescendo – realista vero dotato di una grande capacità d’intendere la presenza umana, di fermarla tenendo presente la visione nascosta di un Io che trascende le immagini stesse, immergendole in un’atmosfera autre.
Cercherò di spiegarmi: il problema è quello della vita e della morte, vita dalle forme pur belle e morte delle stesse, vista senza intromissioni, senza retoriche di sorta. La psicanalisi qui c’entra poco e neppure la storia, eco di ciò che è stato bello e brutto, di ciò che rimane e che può essere ripetuto, magari con il supporto dell’ironia.
L’andamento dei suoi lavori, che si susseguono a tappe, è perfettamente circolare. Sono i suoi “racconti”, chiusi, surrogati, in superficie, da “prestiti” dotti, ma sempre dichiarati, assunti formalmente per portare a quella che è la soluzione finale: un espressionismo apparentemente senza legami sociologici se non personali, una visione che è quella propria dell’Io su se stesso e quella degli altri alla ricerca di una verità per tutti, nemmeno morale, ma sempre e soltanto metafisica, legata appunto a quella fondamentale della vita e della morte. Tutto vive, tutto passa dunque nelle oper di Dugo, anche l’essere degli stupendi cipressi su cui egli si concentra fino all’ossessione nel graffiarne le barbe, le rugosità, i segni di un tempo che parrebbe essere eterno, ma che è scandito da ferite, da tracce che ne preludono la fine...
Dugo, ci par l’ora di dire, è un Goriziano, abita in una città culturalmente di stampo mitteleuropeo, la patria di Michelstaedter, tanto per intendeci, il filosofo e il poeta della persuasione con il quale Franco sembra muoversi spesse volte quasi all’unisono. E’ una visione del mondo, la sua, che non vuole negare (o non pare) la solitudine perché è umana e tutto, nei suoi fogli, è anche “troppo umano”.
Pittore filosofo dunque? Dugo è anche questo, anche se spesso ciò che vince in lui è la poesia, non legata ai barocchismi del presente, ma poesia severa che tutto richiede alla bellezza del segno, alla perfezione formale.
E’ questa è un’idea generale della produzione grafica di Franco; ci sarebbe da aggiungere altro: analizzare a fondo i vari periodi (più di ogni altro quello degli stupendi ritratti che paiono sospesi al dì la di se stessi, immersi nella realtà in cui vivono che l’autore non giudica, ma interpreta nella perfezione delle sembianze, come fossero sassi dell’Isonzo il fiume che ama...), le motivazioni anche esterne, i prestiti, le suggestioni quasi tutte legate all’ambito del Simbolismo, ma a me è dato di parlar d’altro, degli esiti per così dire “pittorici” del suo percorso, il meno noto forse dei suoi impegni. Non è giusto sia così: quasi alla fine di ogni ciclo di incisioni Dugo si dà alla “pittura” tout-court. E’ un’operazione di compimento la sua, un redde rationem logico della segreta volontà d’immettere in spazi più liberi la posizione di un Io che guarda al sé nei luoghi che gli sono dati e che può rappresentarsi fino all’indefinibile. Vi arriva, Dugo, attraverso tracce quasi diaristiche, tratte da un carnet in cui sono contenuti, stesi a pastello, a seppia, a carboncino, i temi e le figure dei suoi lavori grafici, ma ancor più i paesaggi carsici, le colline percorse dal vento, i cieli sovrastati da nubi d’incredibile spessore in cui la solitudine dell’essere è corpo vivo, è territorio dell’anima. In questi paesaggi il “romanticismo ideologico” di Dugo trabocca e si chiude in un espressionismo privo di apparenti nevrosi, chiuso nella personale, virile concezione di sé di fronte al tempo ed alle cose, come queste vittime del loro essere, del loro destino. I passi finali sono dunque gli stessi del Franco grafico: anche qui, egli par chiuso da un cerchio metafisico, un cerchio senza uscite se non quelle poetiche e sentimentali della forma che suonava come riscatto...Nelle opere in fieri il paesaggio è costituito da un bosco d’alberi immensi che il colore, ora bruno, ora rossastro e il vento smuovono e intrecciano fino a dar loro un’immagine d’assoluta, apparente impenetrabilità. Davanti ad esso si muove un uomo che par guardi i segreti tratturi densi d’ombre che talora appaiono nel groviglio, gonfi di chissà quali nevrotiche paure o di misteriose rivelazioni, un uomo tranquillo che tutto sa, che tutto prevede, messo di fianco, oppure nella posizione di chi con la forza del sapere insegna. Stranamente mi ricordano, questi grandi fogli, le Passeggiate di Walser, uno dei maestri di Kafka: vi è la stessa apparente tranquillità, una calma che sa nascondere il potere dei turbini, li lontana… E’ indubbiamente un passo avanti nell’opera pittorica di Dugo. Nei precedenti fogli il sé non compare, vi è soltanto la traccia di un Io che è fuori dell’opera, che si lascia intuire come parvenza esterna e sentimentale, con gli occhi dell’anima spalancati sulla forza di un Dio invincibile che forse potrebbe essere il Nulla… Qui c’è altro: Dugo ha accolto nel vuoto la figura di un Dasein che sa... Non so dove andrà a parare Franco: io mi auguro molto lontano.
(Opere 1993-1997, Villa Foscarini-Rossi, Stra, 1997)