Elisabetta Sgarbi

L'essenza della natura

"Per gli Poeti Teologi, Giove non fu più alto della cima de' monti. Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loro natura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Giove; onde poi da "nuo", cennare, fu detta "Numen" la Divina Volontà, con una troppo sublime idea, e degna da spiegare la Maestà Divina, che Giove comandasse co' cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la Natura fusse la lingua di Giove; Così venne a Giove il temuto Regno del fulmine; per lo qual'egli è 'l Re degli uomini, e degli Dei (...)”
Questo noto passo de La scienza nuova di Giambattista Vico racconta cosa è la poesia. Lungi dall'essere un genere letterario tra gli altri, essa è il modo con cui gli uomini hanno dato nome alle cose essenziali, per comprenderle. Il cielo si rompe, un fulmine lo squarcia, un boato annuncia la saetta: si mostra una forza sovraumana che può uccidere. E quindi può anche salvare. E i primi uomini e i primi poeti, come i bambini, danno un nome a questa potenza che salva e che uccide, un nome e un volto che renda conto di una potenza, Giove. Ma così ne colgono anche l'essenza più profonda: cosa è la natura – al di qua e al di là di ogni sguardo puramente scientifico - se non ciò che nutre e ciò che corrode, che vivifica e che uccide?
I poeti, dunque, come i bambini hanno "paura del cielo". Come mio padre, che quando ripensava alle cose essenziali della vita non sapeva esprimerle che con le parole dei poeti che aveva "mandato a memoria". Anche negli ultimi anni, scrittore e farmacista, mio padre Nino pensava a sua madre con i versi di un poeta dialettale Ferrarese, Alfonso Ferraguti: "Una candela di cera che brucia tutta per me", nominando così l'essenza dell'essere madre. Non sapeva e non voleva utilizzare altre espressioni. Quel verso era conclusivo e inclusivo di ogni aspetto della maternità. E a Vico, come ai poeti amati, come a mio padre nelle sue accensioni poetiche, associo questi lavori di Franco Dugo, "recenti o recentissimi", come lui scrive, ma memori non solo di un suo percorso pittorico che ho amato e conosciuto, bensì della grande tradizione pittorica che lui ha profondamente meditato, fino a Piero Guccione. Sono, queste, opere che nascono in occasione di una giorgionesca tempesta sulla laguna veneziana, presso l'Isola di San Giorgio. Scrive Dugo (e sembra di sentire Gian Battista Vico): "il cielo sembra squarciarsi per un vento molto forte, ammassi di nuvole tagliate da squarci di luce violenta si formano e si disfano in continuazione sopra la linea dell’orizzonte. Arrivato all'ultimo quadro, sento che da quel luogo gravato da un cielo tempestoso, sto per partire verso un'altra direzione; e introduco una figura. È un uomo sulla riva, di spalle, e sta guardando il mare. Mi è subito chiaro come l'uomo cercherà tra poco di attraversarlo e come quelle acque siano l'ignoto, speranza e la paura". Dugo manifesta l'essenza della natura, non rappresenta nulla, ma ricerca. Perché non si può rappresentare una essenza, la si può solo ricreare. C'era Dugo in quel cielo che si squarciava, e ora nei suoi quadri riappare un uomo, sulla terra ferma, che sta pensando (o tentando) di attraversare il mare in tempesta. Una immagine che dunque può valere per ogni immagine della cronaca di questi anni: il mare come fonte di vita e possibilita di morte; ponte verso la salvezza capace anche di inghiottire e fare scomparire. La natura di Dugo, insomma, non ha nulla a che vedere con qualcosa che accade fuori di noi, come noi dopo secoli di scienza e tecnica siamo abituati a pensare il rapporto tra uomo e natura. La natura siamo noi, il cielo e il mare sono il nostro destino, ciò da cui proveniamo e ciò verso cui, e dentro cui, ci incamminiamo. Dugo non rappresenta la natura, racconta il legame invisibile tra uomo e natura. Anzi, Dugo ci chiede di smetterla di distinguere uomo e natura, per raccontare questa coappartenenza. Come hanno sempre fatto i poeti, gli artisti, come ci racconterebbe con leggerezza nel suo Nuvolario Fosco Maraini.
(Catalogo della mostra "Dal cielo e dal mare", i paesaggi di Franco Dugo e gli abiti di Mateja Benedetti, Galleria Antonia Jannone, Milano, 2019)