Paolo Maurensig

Un incontro

L’ho conosciuto in una libreria. Sul momento ho provato quel certo disagio che ci coglie quando, nel vedere per la prima volta una persona, abbiamo la sensazione di averla già frequentata in passato, o che in qualche modo ci rassomigli. L’incontro è stato fugace, ma non superficiale. Una stretta di mano e la promessa di ritrovarci a Gorizia, nel suo studio.
Era da tempo che volevo conoscerlo, da quando mi fu regalata una sua incisione. Un cipresso in mezza luce, che spicca solitario sullo sfondo di un cielo chiaro, attraversato in lontananza da una flotta di nubi. Non è una stampa di grandi dimensioni, ma ti dà l’illusione che sulla parete sia aperta una feritoia. Puoi immaginare che l’ombra si rivolga lentamente attorno a uno gnomone, mentre ai margini di quello spazio desolato, in lontananza, ma non tanto da non percepirne il brulichio, la vita, la nostra stessa vita, ruota e si consuma.
Un pomeriggio, finalmente, sono andato a trovarlo nel suo atelier, e ci sono rimasto fino a tarda sera. C’è stato il tempo per parlare di tutte le cose che ci accomunavano: abbiamo scoperto persino di essere vissuti per molti anni nello stesso borgo e di aver condiviso, in gioventù, la passione per la boxe. In quelle tre ore trascorse assieme ho avuto il tempo di osservare, a uno a uno, tutti i suoi lavori, e sono rimasto stupito dalla molteplicità dei temi e dal registro dei sentimenti che percorrono tutta la sua opera. Stupendi i suoi paesaggi, le sue visioni del Carso; impressionante la serie dei ritratti: da Rembrandt a Ricasso, da Rilke a Kafka; ma anche foto segnaletiche, volti anonimi, occhi folgorati dal lampo di magnesio. Infine mi è rimasta la convinzione che egli voglia preparare un affresco di dimensioni universali, del quale si possono scorgere solo dei frammenti.
Mentre dal soppalco del suo studio scendevo un po’ euforico, ma pure frastornato da quel caleidoscopio di figure, di personaggi, di volti che sembrano compenetrarsi per formare un solo grande (auto)ritratto, mi è venuta una strana idea, e ho cominciato a guardarmi intorno. Se l’Aleph di Borges – mi sono domandato – è impresso sul diciannovesimo gradino della scala che scende nella cantina di una casa di Buenos Aires, ed è visibile solo a chi giace supino sul pavimento, dove potrà mai trovarsi, in quel luogo o altrove, il suo segreto punto di osservazione? Forse un domani glielo chiederò. Mi rimane però il sospetto che Franco Dugo l’abbia scoperto un giorno nel nodo di un tronco, o nella forcella del ramo di un cipresso. A buon conto, di fronte alla parete su cui è appesa la sua incisione ho già collocato una comoda poltrona.
(Venti anni di incisione, Stamperia d’arte Albicocco, Udine, 1997)