Elio Bartolini

Ipotesi su Dugo

L’attenzione con la quale Dugo bada alle cose non tanto in sé quanto nella loro forza di significato, allora come riflesso di un giudizio sul mondo, infine come un’ ideologia, si potrebbe anche definire “romanticismo ideologico”.
E qui subito qualcuno storcerà il naso preoccupato che Dugo non finisca col privilegiare, per dirla in termini più propriamente d’estetica, l’iconologico sull’iconografico e magari, Dio ne guardi!, “tendenziosamente”.
Ma anche dell’Antonioni di Il grido noi, molti anni fa, dicemmo che faceva del romanticismo ideologico: il che non impedì che Il grido, pur riguardato con tutta l’acribia dello specifico cinematografico, fosse uno dei film più “puri” del tempo. Oggi, sostenendo che il fare di Dugo è denso di tendenziosità, non ci preoccuperemo della possibile accusa per cui, bravo si, bravo finché si vuole, ma Dugo non fa pittura perché si schiera anzitutto dietro linee di racconto. Ci domanderemo invece: quale la tendenziosità ideologica di queste tredici tavole che Dugo, dopo averle portate avanti con ogni sapienza tecnica, ci presenta filtrate da una sorta di montaggio attorno al tema del cosiddetto ratto della "Gioconda"?
Perché se è vero - come continua ad esserlo almeno nella storia delle buone usanze della civiltà figurativa europea - che la “Gioconda” costituisce l’avvicinamento massimo a quella Bellezza che, da Platone in poi, più ci avvicinerebbe all’Assoluto, il suo furto (o, molto aulicamente, il suo “ratto”) ha avuto solo motivazioni di avidità e di cinismo (come nel caso dell’ineffabile "marchese" Valfierno) o di sconfinata ingenuità esibizionistica (come nel caso di Vincenzo Perugia, l’autore materiale del furto) e perfino di “nazionalismo” (come sembra si debba dire dei due collaboratori del Perugia, i fratelli Vincent e Michele Lancelotti)? Non c’è, dietro, un più cupo sussulto iconoclasta, una vera e propria volontà d’offesa?
Senza dimenticare altre offese e i modelli in cui si incarnarlo; le puttane tesserate, i ladri matricolati, i pregiudicati di varia provenienza, i rivoluzionari in attesa dell’ora storica, famosi e anonimi, di faccia e di profilo, ma sempre irrigiditi davanti al più perverso strumento di omologazione che l’uomo abbia conosciuto: la macchina fotografica della Polizia.
Furono Dada e Surrealisti ad intuire per primi lo straordinario valore della fotografia segnaletica. Riprendendone la suggestione di portrait parlé con tutto un esasperato puntiglio iconografico di retini, carte millimetrate, impronte digitali, timbrature a inchiosto grasso, e poi i visti, le date, gli Identificato, gli Wanted, ancora Dugo costruisce un racconto ideologico dove, per dirla con Pauletto, «c’é chi denomina e chi è denominato». Ma se è vero che le partenze “segnaletiche” di Dugo tendono ad un discorso di identità (non rasserenante né pacifico, d’accordo), le incisioni della serie denominata Atelier dove tra Freud e la Gioconda si inserisce l’oscenità forzuta di una “donna culturista” (che è poi, di nuovo, Monnalisa!), tendono a proiettarlo su oscuri fondali di aggrovigliate “corrispondenze” fino ad una sua cifra orfica.
Ma ricordiamo che se in passato occorreva un artista della forza di Bosch per fare spavento con l’icona (ed anche per questo l’orrido era bello, il mostruoso sublime), Oggi che le masse “digeriscono” dosi incredibili di atrocità e che le resistenze dell’individuo al terrorismo dell’immagine s’allentano sempre più, l’arte fa bene a richiamarsi a suggestioni orfiche. E Dugo, mettendosi su questa strada, dimostra tutta l’intenzione di percorrerla fino in fondo. Vittoriosamente, noi gli auguriamo.
(Catalogo della mostra, Galleria Sagittaria, Pordenone, 1984)